Federico II e la sua corte
Federico II di Svevia fu un uomo di ingegno eccezionale, universalmente considerato superiore ad ogni altro personaggio contemporaneo. Fu letterato, statista, condottiero, legislatore; ma oggi è ricordato soprattutto per la mentalità libera, eclettica ed anticipatrice. Il fascino che circonda la sua persona è dovuto soprattutto al fatto che egli seppe interpretare contemporaneamente molteplici situazioni che oggi ci appaiono fra loro apertamente contrastanti. E ciò non per incoerenza o scaltro opportunismo, ma perché dovette dominare un periodo di profondo cambiamento, dibattito fra integralismo cattolico e stato laico; superstizione e scienza nascente; dogmatismo, eresie e libero pensiero. Ed in ogni situazione egli fornì sempre un esempio di libertà interpretativa e di tolleranza ideologica difficilmente inquadrabile in una religione o, più in generale, in un movimento di pensiero organizzato.
Federico II fu al tempo stesso un uomo medievale e moderno: il Medio Evo si esprimeva in lui nella concezione del mito imperiale, forte di un potere universale che gli derivava direttamente da Dio; la modernità era presente nella sua apertura ad integrazioni culturali ed equilibri politici sempre nuovi. L'atteggiamento di Federico II di fronte al mondo intellettuale del suo tempo ci dimostra che egli era già pervenuto al concetto dell'unità e dell'universalità del sapere umano, per cui veniva abolita ogni differenza fra un dotto cristiano, musulmano ed ebreo, in un embrionale afflato che oggi potremmo definire ecumenico.
Senza discriminazioni di razza e di fede, la sua Corte accolse tutti i principali uomini di cultura che in quel momento erano portatori delle teorie di maggiore avanguardia, attingendo soprattutto dalle maggiori scuole d'Oriente; tant'è che i cronisti medievali e gli scrittori d'ispirazione cattolica lo hanno più volte definito un Musulmano battezzato. Data la fonte, non c'è dubbio che l'appellativo abbia avuto un'intonazione marcatamente polemica ove non addirittura denigratoria, dato che nelle battaglie di fede la peggiore offesa è sempre stata quella di essere considerati della religione opposta o concorrente.
Questi atteggiamenti condussero Federico II a circondarsi di illustri matematici come Leonardo Fibonacci e di studiosi della nascente astronomia come Michele Scoto; ed anche di musici, medici, legislatori, filosofi...
Nel 1224 fondò l'Università di Napoli, fonte di scienze, seminario di dottrine, crocevia culturale del Regno di Sicilia; ma essendo la prima istituzione statale e laica, libera da ingerenze confessionali, riuscì ad attirare docenti di ogni parte dell'Impero, fra i quali gli insigni giuristi Benedetto da Isernia e Roffredo di Benevento. Riordinò la Scuola Medica Salernitana dove fu istituita la prima cattedra di Anatomia. La Corte sveva divenne così uno straordinario centro culturale e scientifico destinato ad essere ricordato, nella memoria dei posteri, come un'isola felice.
Particolare menzione merita la fattività letteraria, dato che Federico II raccolse intorno alla Magna Curia la scuola che fu detta siciliana, alla quale lo stesso Dante riconoscerà la priorità storica nel poetare in lingua volgare e nella formazione del nostro linguaggio poetico. In realtà questa scuola non ha molto di strettamente siciliano, se non l'origine di alcuni suoi romanzaturi e certe assonanze con la parlata isolana. Questo fatto va peraltro ascritto a maggiore merito dell'Imperatore che seppe accogliere ed integrare letterati di varie provenienze geografiche; e, se è vera l'influenza della parlata sicula, con altrettanta facilità si può individuare il contributo delle influenze daunie.
Le liriche espresse da questa corrente poetica parlano di amore, lamentano la lontananza dell'amata, celebrano la sua bellezza. Esse si articolano con una metrica nuova, raffinata: Jacopo da Lentini è considerato l'ideatore del sonetto, adottato da allora per oltre sette secoli. All'Imperatore stesso sono state attribuite tre liriche: Dolze mio drudo, De la mia disianza e Sospiro e sto en racura.
Ecco la lirica De la mia disianza:
De la mia disianza
C o penato ad avire
Mi fa sbandire - poi chi nò ragione,
Che m à data fermanza
Com io possa compire
Lu meu placire - senza one cagione,
a la stagione - ch io l averò en possanza.
Sotto il profilo politico ed istituzionale Federico II non fu meno innovativo. La sua attività fu volta alla creazione di una monarchia assoluta ed illuminata, che avrebbe trovato concreta realizzazione, sia pure con le modifiche imposte dai tempi, solo nel '700; le sue leggi accolsero ed integrarono le più aggiornate elaborazioni del tempo, resistendo a secoli di evoluzioni giuridiche; le lotte con il Papato, spesso cruente, per affermare i diritti dello Stato laico, gli procurarono tensioni, incomprensioni e scontri non ancora del tutto rimossi all'Alba del Terzo Millennio.
Federico II, con il suo seguito ed il suo governo, non risiedeva mai a lungo presso una stessa sede fissa. Anche se possedeva castelli in tutto il meridione d'Italia e palazzi sontuosi nelle fedeli Cremona e Parma, la sua era una Corte itinerante, unico esempio, forse, nella storia del Medio Evo cristiano. Questo fatto dipendeva dalle esigenze di governo che gli imponevano continui trasferimenti; ma poteva soddisfare la sua attitudine per la vita nomade, mutuata nei continui contatti con il mondo arabo.
Così la Corte imperiale si muoveva spesso dalla Sicila alla Germania; ed allora le strade erano animate da uno spettacolo esclusivo, inenarrabile, che colpiva la fantasia delle popolazioni, il cui unico diversivo erano le funzioni religiose e le sagre paesane. Il corteo, descritto da varie fonti, vedeva sfilare cavalli saraceni purosangue, elefanti, cammelli, odalische, eunuchi, saltimbanchi...e, con loro, paggi, ministri, burocrati, notai, scrivani; ed ancora militari, cani da caccia, animali feroci, cui si mescolavano inevitabilmente popolani in cerca di fortuna ed avventurieri. Al centro della sfilata, curata ad arte da fini scenografi per muovere lo stupore, animare i fedelissimi ed incutere soggezione ai nemici, c'era lui, il divino, che non poteva passare inosservato per la carrozza che lo trasportava e soprattutto per il suo eccezionale portamento. A volte, attraversando le città ed i paesi più popolosi, si mostrava a cavallo, in sella al famoso Dragone, con le vesti preferite da cacciatore.
Come molti uomini non solo medievali, Federico II nutriva una profonda passione per l'attività venatoria che considerava più di uno sport: un'arte, quasi una scienza; ed era affascinato dalla caccia con il falcone, una pratica di origine iraniana probabilmente introdotta in Europa dagli Arabi. Non meno viva era la passione che nutriva per gli uccelli, paragonabile a quella di un attento naturalista e di un fine etologo, intento ad osservare la loro disposizione in volo, il loro comportamento durante le tempeste marine, il modo con cui costruivano i nidi. Tutto ciò è testimoniato in un trattato che illustra l'arte di cacciare con gli uccelli "De arte venandi cum avibus", decisamente notevole e moderno sia per l'acutezza dell'osservazione sia per il rigore e la vivacità dell'espressione. L'opera mette a frutto le osservazioni effettuate nel corso di molti anni, comparate con le conoscenze ornitologiche degli antichi e in particolare di Aristotele, la cui opera era stata da poco tradotta dall'arabo da Michele Scoto.
Testo curato da Carlo Fornari e Alberto Gentile